Così muore in Italia, l’impresa di chi denuncia il pizzo

 Questo avrebbe potuto essere il racconto di una delle imprese napoletane di successo. Una di quelle che racconto spesso su questo blog.

Ed invece non può esserlo perchè ad alcune latitudini, le valutazioni macroeconomiche e le analisi applicabili, sfuggono alle consuete logiche ed alle convenzioni comunemente assunte per valutare il lavoro di chi decide di intraprendere.

Questa storia l’ho trovata per caso, non che non fosse stata raccontata da qualcun altro prima, anzi, ma, mai da una penna nota, o da uno scrittore di successo in cattività.

Scrive Luigi:


Luigi è un imprenditore, uno di quelli che ama il proprio lavoro e lo fa con passione, tanto da avere successo. Apre un negozio per impianti di illuminazione, poi un altro, poi un altro ancora fino ad avere una rete di punti vendita nella provincia di Napoli che funzionano, e nonostante il periodo di crisi (purtroppo) vanno bene.

Se fai l’imprenditore al Sud, oltre al costo del denaro più alto, alla rete logistica carente e alle consuete variabili di mercato, il rischio di impresa non può prescindere da un accidenti fondamentale, che non ti insegnano al primo anno di economia aziendale: la presenza degli esattori dell’antistato, delle mafie che, per certosina competenza territoriale, vengono a chiederti il proprio tributo.
Luigi all’inizio arriva a consegnargli cifre altissime,  svariati milioni di euro. Poi la denuncia. Le nuove minacce. Un sequestro di persona, le percosse e la distruzione di tutte le attività che a lui facevano capo.
Alla faccia dei napoletani omertosi, mi racconta di una cinquantina di persone denunciate

Eppure la vicenda di Luigi suscita poco appeal, nessuna penna da talk show ha mai preso posizione sul suo caso pur pontificando su tutto (“la mia storia fa paura, la camorra fa paura, la gente non ne vuole sapere”). E neanche lo Stato visto che Luigi è stato lasciato solo. “A volte ho come l’impressione che le mafie siano ben infiltrate nelle istituzioni” mi dice , sia a Nord che a Sud anzi specifica “qui da noi ci sono solo i manovali, gli affari veri si fanno da Formia a salire”, il pizzo in silenzio lo pagano anche ben oltre il confine del Garigliano.

Questa storia mi fa specie non per il solito e talvolta retorico “pippone” da professionista dell’antimafia, ma per una consapevolezza che Luigi  esprime in una intervista che ho trovato sul web. Alla faccia dei latori della mafiosità genetica e del lassismo dei meridionali.
Ovvero il fallimento di una azienda, non per le comuni dinamiche di mercato, ma a causa del racket .Una sconfitta per lo Stato, non attribuibile alla cattiva gestione dei propri (propri dell’imprenditore, intendo) affari.

Il tutto aggravato dalla non ancora attuata e concreta protezione della vita di chi denuncia forte del “proprio senso di giustizia”; figuriamoci poi il risarcimento per i danni provocati dagli attentati incendiari subiti (la burocrazia non guarda in faccia a nessuno): “mi hanno detto che come amministratore di fatto non ero titolato a chiederlo”.

Da ottobre Luigi è entrato pure nel programma di protezione per i testimoni di giustizia, ma ad oggi non ha alcuna scorta (tanto che la senatrice Ricchiuti la scorsa settimana ne ha chiesto conto al Ministro Alfano e al Capo dello Stato).

Mi racconta che prima di essere lasciato nuovamente solo si era interessato del suo caso pure l’onorevole di Maio.

Insomma pare che la sua storia non sia molto popolare, fatta salva l’attenzione dell’associazione che porta il nome del giudice Caponnetto che non lo ha lasciato solo.
Luigi hai paura? Gli chiedo retoricamente e lui altrettanto retoricamente mi risponde che ha messo nel conto qualsiasi cosa. Quello che mi stupisce veramente di quest’uomo è che il suo primo pensiero non sia legato alla morte ma al lavoro, alla dedizione per quello che fa e che faceva è che lo ha spinto a non pagare (“pagandoli “non te li togli davanti, anzi”) . Una paura legata soprattutto al fatto che gli attuali  datori di lavoro di Luigi non ne conoscono la storia.

“Non hai paura che vengano a sapere chi sei e cosa hai fatto?” – ” E’ successo già due volte, ma dovesse riaccadere, spero di no, negherei tutto “.
A voi sembra normale che uno debba negare se stesso solo per aver fatto quanto lo Stato e l’etica personale ed universale richiedono?

Ma tant’ è, dai tempi delle deleghe dell’ordine pubblico a Salvatore de Crescenzo, a Napoli lo Stato preferisce ancora delegare.