Al San Paolo: fischi e gran fiaschi per la democrazia

 

di Lucilla Parlato

Con tutto il rispetto per chi fa il proprio lavoro, siamo in uno stato di polizia e ieri al San Paolo di Napoli lo si è visto. Lo si è vissuto.

Il gruppo era folto, come nelle grandi occasioni per Insorgenza civile, movimento con il quale ho partecipato alla manifestazione per la Terra dei fuochi in occasione di Italia-Armenia: un volantinaggio e uno striscione fuori allo stadio, settore tribune, dalle 16 a inizio partita, concordato con la Digos, a cui si era chiesta, come di consueto, regolare autorizzazione.

Da tempo si era deciso che la partita Italia-Armenia sarebbe stata l’occasione per lanciare un piccolo segnale contro quello che orrendamente viene definito “biocidio”, ossia lo sterminio della nostra gente tramite sversamenti tossici nei territori tra Napoli e Caserta. Da Casal di Principe, Pianura, e da altre parti della “Terra dei fuochi”, quelli che nel gruppo di Insorgenza da anni combattono sul proprio territorio contro gli abusi all’ambiente erano tutti presenti, tant’è che alle 19 i volantini erano già finiti.

Alle 19,30, mentre nel piazzale cominciavano ad affollarsi scolaresche tricolorate, grazie ai numerosi biglietti omaggio donati alle scuole per riempire un San Paolo insolitamente deserto, su richiesta della Digos decidiamo di abbassare lo striscione. Alcuni ci salutano, qualcuno entra dentro, il grosso resta a chiacchierare fuori allo stadio anche per ascoltare i fischi e fischiare, seppur dall’esterno.
Dentro, infatti, altri gruppi e tanti singoli avevano deciso di comprare i biglietti, per sventolare la bandiera delle Due Sicilie o per esprimere il lutto vestiti di nero, ma principalmente per aggredire sonoramente l’inno di Mameli, simbolo di un’Italia nella quale noi, come altri, non ci riconosciamo.

Dieci minuti dopo la “fischiata”, però, la telefonata allarmata di una delle nostre ragazze fa cambiare verso alla serata: “Venite al varco presto, hanno ammanettato Gigi”.

Era successo che un altro gruppo aveva esposto sulle tribune uno striscione: “Mentre vuje pazziate nuje murimme avvelenate” e che pochi minuti dopo uno steward, accompagnato da altre quattro persone, lo aveva strappato via dalla tribuna violentemente, spintonando tutti, tra cori improvvisati della platea contro la polizia “tumori, tumori, tumori” e tentativi di spiegazione da parte di uno dei ragazzi vicini a Insorgenza, che più che difendere uno striscione non nostro difendeva un principio: “Lo facciamo anche per voi”.
Ed è a quel punto che lo Stato di polizia si è materializzato nella sua brutalità.

Perché uno Stato che consente che dei ragazzi che non hanno fatto null’altro che esprimere un pensiero, un messaggio, siano aggrediti da uno steward, presi a schiaffi dai poliziotti, minacciati, fermati, interrogati per ore, non è accettabile, non è civile. E in questo Paese lo abbiamo visto accadere troppo spesso in questi ultimi anni, troppe volte, nonostante tra i poliziotti, fuori al commissariato San Paolo di Fuorigrotta, c’è stato chi, in abiti borghesi, dopo è venuto a chiederci scusa.
Complici video, foto, tante testimonianze in nostro possesso, i due “colpevoli di pensiero” alla fine, sono stati rilasciati.
Al contrario di chi aveva introdotto lo striscione allo stadio, dileguandosi alla vista della polizia, la loro colpa è di aver difeso la libertà di dire che ci avvelenano. Un concetto molto meno forte del nostro, autorizzato, che chiamava in causa Stato, camorra e industrie ma molto più fastidioso per le telecamere Rai, che intanto raccoglievano ipocrite l’appello per salvare i bambini del terzo mondo. Ma non i nostri qui.

Una serata indelebile e amara come poche. Amara come il ricordo di tanti altri striscioni visti sugli spalti. Ad esempio quelli che invocavano il Vesuvio a lavarci sul fuoco.
Per quelli non si è mossa mai una mosca. Non è una storia di ordinaria italianità?

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