Come stanno uccidendo le Università del Sud

Sul Mattino del 27 Marzo 2014, Pino Aprile prende ancora posizione sul delitto imperfetto perpetrato ai danni delle Università del Mezzogiorno, conducendo ancora allaribalta un fenomeno silente che produce un forte danno in termini economici:

Perché tener aperte le università al Sud, se i terroni possono studiare al Nord, dove poi, se sono bravi e si accontentano, li tengono pure a lavorare? Sul Corriere della sera, Francesco Giavazzi, quello che scrisse che gli atenei dovrebbero rinunciare ai fondi pubblici, come fa la sua Bocconi (che invece di quei fondi ne incassa vagoni), chiese la chiusura delle università di Bari, Messina e Urbino, perché basse nelle classifiche di eccellenza (dimenticando, o proprio per questo…, che il Politecnico pugliese è il migliore d’Italia, nella lista mondiale di quelli statali). Così, per risparmiare, gli ultimi tre governi, prima dell’attuale, hanno varato norme che portano, in tempi brevi, a declino e morte degli atenei meridionali. Nemmeno Maria Stella Gelmini, ministra arcoriana contro l’Istruzione, ebbe coraggio di fare quanto portato a termine da Maria Grazia Carrozza, Pd, che ricoprì l’incarico nel governo Letta: il suo decreto-killer, comporta lo spostamento dei migliori docenti da Sud a Nord; la riduzione del numero dei professori negli atenei meridionali o la fuga degli studenti, per l’aumento delle tasse, o entrambe le cose. I criteri di assegnazione delle borse di studio, poi, incoraggiano a scegliere una sede universitaria a Nord.
«Quando si è deciso di chiudere le università meridionali?», scrisse Walter Tocci, senatore Pd, direttore del Centro per la riforma dello Stato, dopo il decreto della Carrozza, «non ricordo una legge che abbia preso tale decisione. Eppure…». L’analisi, pubblicata sul suo blog, resta la più chiara e la più dura su quel che sta accadendo, nel quasi silenzio di un Paese ormai rintontito.

Ed ancora:

due giorni fa, il rettore dell’ateneo barese, Antonio Uricchio (non è stato il solo), ha mostrato con quale velocità i danni diventino irreversibili. Nel tentativo di limitarli o salvarsi, c’è chi, a Sud, vede nella morte del prossimo, la propria fortuna (il presidente dell’Abruzzo, Gianni Chiodi, per dire, si disse favorevole alla chiusura dell’ateneo pugliese, prima di essere distratto da faccende più private).
Chissà se, citando Karl Kraus, si riferiva pure a questo, Stefano Paleari, che guida l’università di Bergamo, è presidente della Conferenza dei rettori italiani, ed era l’altro ieri a Bari: «La guerra in un primo momento è la speranza che a uno possa andar meglio, poi l’attesa che all’altro vada peggio, quindi la soddisfazione che l’altro non sta per niente meglio e, infine, la sorpresa che a tutti e due va peggio».
In dieci anni, le immatricolazioni sono passate da 35 per cento a Sud e 39 a Nord, a 31 e 45. Già nel 2007, il professor Roberto Ciampicacigli, direttore del Censis, avvertiva che «nella bilancia commerciale dei saperi», i flussi sono «tutti nella direttrice Sud verso Nord». L’inchiesta di Pietro Reichlin sul Sole 24ore, stimava in 60mila euro il costo della laurea in sette anni (media), stando in sede. I fuorisede devono aggiungerci da 20 a 25mila euro all’anno. Universita.it, prima dell’attacco della triade di ministri Gelmini-Profumo-Carrozza alla scuola meridionale, contava 23mila studenti meridionali, in trasferta ogni anno al Nord. Chi volesse calcolare quanto fa in soldi… Ciampicacigli trovò che a guadagnarci di più era l’Emilia Romagna (800 milioni di euro all’anno), a rimetterci di più la Puglia (500 milioni). E non solo di soldi si tratta; quei criteri ministeriali «colpiscono le fondamenta del sistema universitario», scrive Tocci.
Il meccanismo è complicato e si nutre di parole-truffa: si parla di “premi”, per le università “migliori”, ma è solo riduzione camuffata della spesa pubblica per l’istruzione, bloccando il rimpiazzo dei docenti che vanno in pensione. La cosa, partita con la Pdl Gelmini, continuata con il “tecnico” montiano Francesco Profumo, devastata dalla Pd Carrozza, prevede che gli atenei possano sostituire i pensionati, in proporzione alla loro efficienza. Come dire: si aiuta chi va bene ad andar sempre meglio e chi va male, sempre peggio. Criterio discutibile (i malati gravi muoiano, i sani divengano atleti…). Ma pur sempre un criterio. Che coincide con la latitudine, perché si potrebbe riscrivere così: se l’università è del Nord è migliore. Se un ateneo riceve più contributi dalle aziende del suo territorio è “migliore”. Ma va’! Solo perché è nella zona più ricca d’Italia e anche avesse per docenti Trota, Minetti e Borghezio. Mentre, se ci fosse a Caltanissetta una università con Einstein, Fermi, Pirandello, Levi Montalcini, sarebbe “peggiore”, potendo contare solo sui contributi del chiosco di limonate dinanzi all’ateneo (il Pd della Carrozza è erede della tradizione di una sinistra che vedeva nella cultura ai più svantaggiati la sua missione. L’ex bracciante analfabeta Peppino Di Vittorio impara a leggere e scrivere, per rubare “le parole ai padroni”. E per insegnare ai suoi ex colleghi a metter la firma, chiama il titolare della cattedra di Storia della civiltà italiana a Harvard, Gaetano Salvemini. Che accetta. Sono morti in tempo…).
Una università è “migliore”, se fa pagare tasse più alte. Davvero? Se il reddito dei meridionali è quasi la metà di quello del Nord, come possono le università del Sud far pagare di più? Non importa se a far lezione è il Trota: se costa tanto, è meglio; mentre l’università di Caltanissetta è penalizzata, se è costretta a far pagare poco per ascoltare Einstein. Non solo: per disposizione ministeriale, l’introito delle tasse non può superare il 20 per cento, del bilancio degli atenei. Ma «ben trentatré», quasi tutti al Nord, «in dispregio alla stessa normativa», hanno «abbondantemente superato il limite imposto», riferisce il rettore Uricchio, sfiorando, in taluni casi il doppio. Ci sono state pure sentenze di condanna a risarcire gli studenti, per esempio contro l’università di Pavia. Ma, in tempi di magra, se hai più soldi con tasse alte, assumi i professori che gli altri non riescono a pagare, migliori i corsi e sottrai studenti e risorse alle università più povere. «E chi ha sforato il limite del 20 per cento non è stato punito, ma premiato», dice Paolo Stefanì, ricercatore, membro del senato accademico barese.
Il decreto-Carrozza ha peggiorato tanto i criteri della Gelmini e di Profumo, abolendo i freni che ne riducevano le conseguenze. Così, la classifica vede in testa quasi solo università del Nord. E la prima è la Sant’Anna di Pisa, di cui la Carrozza era rettore prima di diventare ministro. (immaginate cosa sarebbe successo se un ministro di Caltanissetta avesse fatto un decreto, in forza del quale, le università meridionali fossero risultate “migliori” e prima, violando le norme ministeriali, quella nissena).

E conclude:

Il decreto ammazza-Sud della Carrozza consente a quelli del Nord di rimpiazzare i docenti pensionati e persino di assumerne altri (casualmente, alla Sant’Anna); quelli del Sud eliminano corsi, perdono studenti, non possono «assumere i migliori docenti, finanziando passaggi di carriera», scrive il professor Gianfranco Viesti. Quei prof «si trasferiscono in altre sedi, con maggiori risorse», e «portano in dote» la loro ricerca scientifica. […]
Estendete tale porcheria a ogni campo: rete autostradale, elettrica, ferroviaria, aeroportuale… Questa è la Questione meridionale: se c’è qualcosa di buono, al Sud ne tocca meno. Se è qualcosa di buono ed è meridionale, vale meno. Tutta qui.
Il professor Paleari, milanese, persona seria, a Bari, due giorni fa, ha detto: «Parta da qui, dal Mezzogiorno, la proposta di una nuova Università che unisca il Paese».
Dove devo firmare?

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