De Giovanni: il vero problema di Napoli? La perdita dell’identità

Leggevo ieri una citazione di Erri de Luca che trovo stupenda ed efficace:

Napoli si era consumata di lacrime di guerra, si sfogava con gli americani, faceva carnevale tutti i giorni. L’ho capita allora la città: monarchica e anarchica. Voleva un re però nessun governo. Era una città spagnola. In Spagna c’è sempre stata la monarchia ma pure il più forte movimento anarchico. Napoli è spagnola, sta in Italia per sbaglio…

 

Per caso, poche ore prima mi imbattevo in una di Pier Paolo Pasolini:

“Ho scelto Napoli per IL DECAMERON non in polemica contro Firenze, ma contro tutta la stronza Italia neocapitalistica e televisiva: niente Babele linguistica, dunque, ma puro parlare napoletano. Non si tratta tuttavia di film dialettale. Il napoletano è la sola lingua italiana, parlata, a livello internazionale. ”

 

Cosa hanno in comune queste due citazioni? L’affermazione, inconfutabile e appassionata, dell’esistenza di una profonda e radicata identità napoletana. Ne ho raccolti due perchè esempi contemporanei, ma ce ne sarebbero a decine.

E non è un caso se da qualche anno le associazioni, i movimenti, le battaglie politiche e d’opinione che traggono linfa da un nuovo indentitarismo, abbiano molto seguito sui social network e nella letteratura (i libri di Aprile, Forgione ed Esposito riescono a vendere molto nel deserto del mercato editoriale) e nella musica contemporanea.

Ad esempio non è un caso che movimenti di denuncia per il biocidio della Terra dei Fuochi, assumano nomi come “Terra Mia” o Liste Civiche di Scopo nate sul territorio denominazioni come“Terra Nostra”, così come il brano di un rapper napoletano contemporaneo, O’ Iank, che in poche ore ha avuto migliaia di visualizzazioni sul proprio canale youtube. Il filo conduttore è il medesimo: la riscoperta identitaria che parte dall’amore viscerale per la propria terra. Non più immondezzaio alla mercè di mafie ed industriali senza scrupoli. Non più matrigna, ma madre. Non più motivo di vergogna (“sei un napoletano”, in senso dispregiativo, “noi non siamo napoletani” come a voler ricondurli e ricondurci all’alveo di eterni esclusi) ma vanto.

Oggi in una intervista al Corriere del Mezzogiorno anche il filosofo De Giovanni affronta la questione dell’identità, riconducendone la perdita, alla causa determinante di taluni mali di Napoli. Un aspetto scevro da elementi politici o amministrativi, ma ab orgine culturale:

Al di là di certe situazioni amministrative gravi, c’è un problema ulteriore dei napoletani. Manca un’identità comune e questo fa pensare a ciascuno: io sono diverso e migliore degli altri e così faccio quello che voglio».

Quindi oltre il problema amministrativo ce n’è uno culturale?
«Sì, l’identità collettiva e condivisa manca perché non ha più una base culturale. In realtà noi ce l’avevamo e anche forte, ma la stiamo buttando via e ce la stanno cancellando, perché si vuole lasciare Napoli in questa condizione d’inferiorità. Il Luna Park Italia ha bisogno di un castello dell’orrore. Da qui vengono i cori di discriminazione allo stadio e la copertina dell’Espresso. Il fatto che durante la partita Verona-Inter entrambe le curve attacchino Napoli non è normale: non si tratta più di uno sfottò tra tifoserie. E dunque come si combatte tutto ciò?».

Appunto, qual è la ricetta?
«Rintracciando l’identità culturale smarrita. Per sentirsi fieri di essere napoletani. E non si può trattare di un processo delegato a una qualsiasi istituzione culturale, diventerebbe un fatto autoreferenziale e posticcio. La cosa migliore sarebbe l’istituzione di una cattedra di lingua e letteratura napoletana, che non esiste in nessuna università partenopea».

E respinge così l’abusata (ormai) accusa di leghismo (con annessa accusa di neoborbonismo) al contrario che serve solo per soffocare la riscoperta e la valorizzazione identitaria:

«A San Pietroburgo ‘‘Le voci di dentro” ha ricevuto sette minuti di applausi. Il napoletano è apprezzato ovunque e non rischiamo di ghettizzarci. Non ho certo in mente spinte neoborboniche, penso alla realtà contemporanea: oggi si canta in napoletano, dai rapper ai neomelodici. Eppure una parte della città non capisce. Una cattedra universitaria è qualcosa di vivo, molto meglio, per unire Napoli, dell’ennesimo dibattito a Scampia».

Estirpare da un territorio e da un popolo la propria identità, vuol dire vilipenderlo, umiliarlo, esporlo a mali che poi diventano irriducibili. Soprattutto se con questi mali si viene a patti..

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