“Quando ci chiesero la terra, per farne Terra dei Fuochi”

È davvero devastante per chi ha legami con quella che è considerata la Terra dei Fuochi leggere i commenti beceri, che vanno ben oltre la xenofobia e l’evidenza, che adducono l’ignavia degli abitanti alla causa determinante del fenomeno della Terra dei Fuochi. Dimenticando che l’elezione dell’area a nord della Campania, non è stata l’unica, in Italia deputata allo scopo di interrare rifiuti speciali e tossici.

Ma quando si parla della Terra dei Fuochi campana, la colpa è dei cittadini che non hanno fatto nulla per impedire il problema.

Più volte, proprio su questo blog, ho postato una delle prime denunce, della fine degli anni 80, della sezione del PCI di Casal di Principe, che chiedeva alle autorità competenti di indagare su uno strano traffico di rifiuti. E, sempre su questo blog, ho postato testimonianze e video raccolti dalla rete di cittadini che denunciavano (anche a mezzo stampa) senza che nessuno muovesse un dito. Le accuse di Schiavone, mai smentite ricordiamocelo, ci hanno poi chiarito come funzionava “o’sistema” che vedeva conniventi aziende del nord, camorra e apparati deviati dello Stato.

Ma vi siete mai chiesti come ha avuto inizio il tutto?

Ho ascendenze familiari in quella che una volta, prima di 154 anni fa, prendeva il nome di “Terra di Lavoro”, per l’altissimo grado di fertilità, riconosciuto sin dai tempi antichi. Era, quell’area, la Campania Felix.

Ora, intendiamoci in partenza, non ho la benché minima pretesa di elevare l’esperienza personale ad esperienza generale, ma quello che sto per scrivervi l’ho ascoltato nei racconti di parenti, intorno al tavolo della domenica, quando ci si spostava per non lasciar morire le esperienze di famiglia patriarcale che, soprattutto in campagna, riuniva generazioni diverse e lontane, nel comune cognome o nell’identità del “patriarca”.

Tutto è cominciato quando la libera circolazione delle merci tra i paesi europei è iniziata a diventare una realtà sempre più consistente e, grazie anche a scelte politiche scellerate, l’arrivo di prodotti agricoli a basso costo ha lentamente preso il posto dei prodotti autoctoni tra gli scaffali dei supermercati e dei mercati. La moda del chilometro zero era ancora lontanissima da venire

In parole più semplici: la produzione ortofrutticola è iniziata a diventare sempre meno profittevole. I più saggi e lungimiranti decisero di unirsi in cooperative e consorzi (in qualche caso la Coldiretti giocò un ruolo fondamentale), i coltivatori diretti più anziani invece, quelli con i figli che “avevano studiato” e che quindi esercitavano una libera professione o avevano un “posto fisso” o erano emigrati, si trovavano sempre di più in difficoltà. Continuare o arrendersi?

Ora considerate che nei piccoli centri, dove tutti si conoscono, le voci girano veloci quanto le raffiche di vento. È in questi momenti che ti suona alla porta “l’amico di famiglia” accompagnato da qualche personaggio che ha una certa influenza in paese e, oggi, ti proporrebbe di utilizzare il campo per distese di pannelli solari (avete visto che spuntano come funghi?) o per impiantare qualche ripetitore di telefonia mobile.

Ma 20 o 30 anni fa o ti concedevano un prestito che non riuscivi mai ad onorare fino in fondo per ovvie ragioni (fino alla cessione del fondo), oppure ti proponevano semplicemente di vendere o dare in affitto l’appezzamento di terra che per i vecchi contadini, morsi come dicevo, dalla fatica, da un futuro in cui nessuno avrebbe più proseguito l’attività, dai mercati che cambiavano, erano diventati un problema e non più una risorsa.

Secondo voi quando a costoro che, se fortunati si erano fermati alla quinta elementare, gli presentavano la “proposta”, gli dicevano, forse, che il terreno (eventualmente) ceduto sarebbe servito per lo smaltimento illegale di rifiuti? No. Se proprio erano loquaci, dicevano che avrebbero costruito qualche piccolo complesso edilizio. E a tanti importava poco, perché le spalle non riuscivano più a sopportate il peso di un mondo che cambiava. Coi soldi della compravendita, prendevano casa altrove, magari vicino ai figli che avevano lasciato il natìo borgo selvaggio e la storia finiva lì.

Anche così, non solo ben inteso, è iniziata la Terra dei Fuochi, con la crisi dell’agricoltura e lo smantellamento delle prime sentinelle del territorio, i contadini e gli allevatori. In tanti hanno resistito, arrendendosi, col tempo, solo dinanzi all’evidenza di un territorio (e dei frutti) che si ammalava con le scorie dell’industria pesante e della politica che, nel frattempo, gli aveva piazzato qualche centinaia di metri più in là,  qualche deposito di ecoballe, che di eco non aveva nulla e che col percolato inquinava falde e terreni.

Chi mi ha raccontato la storia, non ha ceduto alle pressioni e alle proposte che “non si possono rifiutare”. Perché nessuno lo ha fatto intorno a lui, permettendo all’area in cui si trovano di restare immacolata. Si sono uniti in una cooperativa e continuano a vendere frutta. E non è vero che non si trovano operai giovani del posto che vogliano lavorare la terra. Ce ne sono, non tanti, ma ce ne sono. Insieme a slavi ed indiani che poi mettono su famiglia. In mezzo ai campi? Si parla napoletano ovviamente.