UN EROE MERIDIONALE: MAURO DEL GIUDICE, IL GARGANICO DALLA SCHIENA DRITTA

Di Raffaele Vescera

Il 10 giugno del 1924, a… Roma, una squadra di sicari fascisti rapì ed uccise il deputato socialista Giacomo Matteotti. Il caso fu affidato ad “un magistrato di «altissimo valore morale e giuridico”. Un giudice di cassazione, Mauro del Giudice convinto, come ebbe a scrivere, che “l’ordine giudiziario venne istituito principalmente per la difesa dei poveri, dei deboli, dei diseredati” andò fino in fondo. Accertò le responsabilità dirette dei capi del partito fascista e di Mussolini come mandante, ma dopo una campagna infamante orchestrata dalla stampa di regime, accompagnata da ingiurie e minacce fisiche   “il duce” lo fece rimuovere dall’incarico e affidò il processo ad una corte da lui controllata che, in soli 8 giorni,  liberò gli assassini dopo aver inflitto loro pene simboliche e mise a tacere lo scandalo che vedeva coinvolti i vertici del regime.
L’alto magistrato fu trasferito a Catania e, ormai  settantenne, preferì anticipare il pensionamento, ritirandosi a Vieste, sul suo Gargano, dove mio padre, viestano, lo vedeva camminare “a schiena dritta” nonostante le bande di “balilla” che, aizzati dalle camicie nere, lo prendevano a sassate. Fosco presagio del film “Il caimano” di Moretti?  Nel 1973 esce il film di Florestano Vancini in cui  Vittorio De Sica interpreta Mauro Del Giudice.
Così, Gaetano Salvemini raccontò quei fatti: «Non solo furono messe le camicie nere invece dei soldati a far la guardia a Regina Coeli, affinché chi andava e veniva capisse chi era il padrone del vapore; ma due agenti furono messi alle costole di Del Giudice e altri due in borghese alla portineria di casa. I fascisti cominciarono a far dimostrazioni sotto le sue finestre: “Viva Dumini!” “Viva Volpi!” “Morte ai nemici di Mussolini!”. Poi vennero le scritte sui muri del Palazzo di Giustizia”.
…“Anche i giornali fascisti, tra i quali il più facinoroso era “L’Impero”, moltiplicarono le minacce: «È inutile alludere più o meno velatamente a Mussolini per il Delitto Matteotti; il Duce salvatore della patria non si tocca; il fascismo non lo permetterà mai a nessun costo. Chi tocca il Duce sarà polverizzato. Sarebbe la notte di San Bartolomeo!»…«I fascisti riprendevano le spedizioni punitive e la polizia stava a guardare. Del Giudice e Tancredi4 erano avvertiti!» “Marino Brunori ricorda lucidamente quel periodo di vessazioni esercitate sul magistrato dal regime. Una volta, informato che all’uscita principale del palazzo di Giustizia lo attendevano gruppetti di camicie nere, Del Giudice fu costretto ad uscire da un portoncino secondario, tornando a casa ad ora tarda. L’indomani si sparse la notizia che era morto”.
E come ci informa la studiosa Teresa Maria Rauzino, concittadina di Del Giudice, del quale ha pubblicato un’ottima biografia, “Il magistrato fu colpito da un grave esaurimento nervoso provocato dalle tensioni dovute prima alle blandizie e alle pressioni esercitate su di lui, poi alle persecuzioni cui fu sottoposto perché piegasse la schiena di fronte al regime fascista. La sua forte fibra lo salvò”.
Mauro Del Giudice, nato a Rodi Garganico nel 1857, laureato a Napoli, fu studioso di Vico e  della scuola giuridica illuminista napoletana, che ebbe come caposcuola Pietro Giannone, anch’egli garganico e fondatore, agli inizi del ‘700 di quel pensiero giuridico illuminato, espresso nella sua “ Storia civile del Regno di Napoli che gli costò la condanna a 12 anni di prigione. Non a Napoli, bensì a Torino, dove il re del Piemonte lo faceva arrestare: “Il Re di Sardegna  diede l’ordine: i Gesuiti trovarono l’uomo e il modo. «Per dodici lunghi anni – osserva Del Giudice – l’infelice languì in carcere. Invano replicatamente supplicò per riavere la libertà, non avendo offeso in alcuna guisa le leggi punitive, né avendo mai fatto male a chicchessia: le sue supplicazioni rimasero inascoltate” scrisse Del Giudice.
“Dal Vico e dal Giannone deriva una schiera di illustri pensatori e scrittori nel campo della scienza giuridica, nell’economia e nella storia. Questi intellettuali prepararono lo spirito di riforma che ispirò l’opera politica del Tanucci nelle province meridionali, inaugurando in Italia una rivoluzione”.
Bernardo Tanucci fu primo ministro del re di Napoli Carlo III, illuminato fondatore della dinastia borbonica napoletana.

Era convinzione di Del Giudice  che la questione meridionale nascesse con l’unità d’Italia, da egli così descritta:  “Il continuo aumento d’imposte a cui quelle regioni non erano abituate; l’abbandono completo, in cui i governanti di allora, quasi tutti piemontesi e lombardi, avevano lasciato quelle infelici popolazioni senza ferrovie, senza scuole sufficienti, prive financo di acqua potabile, come ad esempio parecchie città popolose delle Puglie, mentre si profondevano centinaia di milioni nell’alta e media Italia, per lavori stradali, portuari, in canali d’irrigazione; funestate inoltre dalla presenza e dall’opera di pessimi impiegati di polizia, trasferiti ivi per punizione, avevano creato tale stato d’animo da fare rimpiangere la caduta del governo di Ferdinando II di casa Borbone».
Ferma  anche la polemica di Del giudice contro i guerrafondai e i teorizzatori del razzismo pangermanico, fondatori della turpe “antropologia sociologica” che divideva i popoli europei  in “eroici ariani” nordici e “corrotti mediterranei”  di cui Lombroso fu macabro realizzatore in Italia.
Scrittore prolifico, fu autore di numerose e importatati pubblicazioni. Mauro del Giudice fu nemico giurato della corruzione politica e di quella giudiziaria che mise a tacere i numerosi scandali dei governi italiani, a partire dal fallimento della Banca Romana.
Novantenne, scrisse le sue memorie, pubblicate postume con il titolo “Cronistoria del processo Matteotti” che chiudeva con un monito premonitore contro “«Quella corruzione si è ancora più aggravata sotto questo regime che si dice repubblicano, ma non è né repubblicano, né monarchico, né socialista, né comunista; è soltanto un’accozzaglia di egoisti uniti fra loro allo scopo di sfruttare il potere, come né più né meno faceva il fascismo».
L’eroico maestro garganico si spense a Roma il 14 febbraio del 1951.