Un uomo solo al comando, lui, Hijo de Di9s

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Adani aveva appena smesso di commuoversi, insieme a Compagnoni. Allora ho scritto a Cristian: vedi quello che devi fare, dobbiamo mettere sulla pagina del Napulegno la vignetta più bella che tu abbia mai fatto.

L’ultima volta che avevo visto l’emozione sublimarsi così, per un’ impresa sportiva individuale, era stata dopo lo scatto di Pantani al Tour de France, che faceva piantare Ian Ulrich sui pedali.

A piangere, allora, era la buonanima di Adriano De Zan. In cima alla salita e per tutta l’ascesa, pioveva, perchè è la vita che imita l’arte, talvolta, e non viceversa. E l’arte ha bisogno di epica, che non può prescindere dalla fatica e dalla pioggia.

Stop di petto, rovesciata e pallone nel sacco. Adani, una vita da mediano, uno di quelli che racconta il pallone, non un mercenario delle emozioni, urla, non ci crede. Poi si ferma. I sentimenti prendono il sopravvento sulla ragione e piange. Ci sono lunghi interminabili secondi in cui pure la consueta, urlata, telecronaca di Sky, tanto cara ai figli di questo nuovo secolo, tace e, nel silenzio, innalza, Gonzalo. E’ il miracolo del football che frantuma la pia illusione che i maschi non piangano mai.

Anche il solito scudetto in bianco e nero, sfuma.

A Napoli, più che altrove, la vita imita a tal punto l’arte da confondersi con essa, fino a diventare essa stessa antologia. E così, sotto al diluvio che diventa catarsi, dopo il 36 esimo gol che frantuma un record vecchio di più di mezzo secolo e che si chiama Nordhal, l’uomo nato in Francia, nipote di un pugile, figlio di un calciatore e di un Sud del mondo, che è patria d’elezione della emigrazione del secolo scorso, viene trasformato dal San Paolo in un pezzo di letteratura da tramandare ai posteri. E, nell’unico tempio di D10S, non poteva che parlare lo stesso idioma di Diego. Non poteva che essere colui che, in Nazionale, Diego aveva fatto esordire. Padre e figlio, nella mistica, pagana religione partenopea.

Nell’epica della serata, nella storia che diventa letteratura e si condensa nella fatica che imperla gli occhi con le lacrime che si fingono sudore, non poteva tuttavia mancare il gregario che ti tira su in cima, fino al gran premio della montagna. Quello che ti protegge dal vento, dalle spinte dei tifosi, quello che ti passa la propria bici quando hai forato la ruota della tua, quello che, di nascosto, ti mette una mano sotto alla sella e ti tira, letteralmente, fino a quando hai ripreso fiato. Quando il nervosismo e l’ansia ti bloccano le gambe. Lui, il capitano, non viene dal Sud del mondo. E’ algido. Slovacco. Sguardo di vetro. Glaciale.

Aggancia il pallone e lo scaraventa alle spalle della porta ciociara. Calma e sangue freddo. Ci penso io, pare sussurragli. Uno che fa una cosa del genere, uno che rifiuta i grandi club, sopporta gli umori dei tifosi e pure qualche fischio, non è uno qualunque. Si prende il suo posto nella storia del Napoli, accanto all’Unico. Afferra la sella di Higuain e lo trascina con la bici fino alla cima dell’ Alpe d’Huez. Come il cireneo dei vangeli, si prende sulle spalle la fatica del pipita.

Lì si ferma e lascia che Gonzalo, Hijo de Di9s, prosegua la sua marcia trionfale fino al traguardo, lasciando che frantumi le pagine degli almanacchi . Coprendogli le spalle.