BREXIT/ La nostra Europa costava 5000 lire, prima della generazione Erasmus

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di Rosario dello Iacovo

Nella prima metà degli anni ottanta del secolo scorso, il viaggio iniziava a Fuorigrotta, Napoli Ovest, in un’agenzia di viaggio a viale Augusto. Facevi un Bige-Transalpino tratta Como – Lugano che costava 5000 lire, raccontando al tizio che viaggiavi in autostop ma preferivi attraversare il confine senza intoppi. Poi passavi in merceria e compravi il Biospray, uno smacchiante che prometteva effetti prodigiosi sui tessuti. Non saprei dirvi se le promesse si traducessero in realtà, usato sui vestiti, ma posso assicurarvi che sull’inchiostro era portentoso. Funzionava così: staccavi il primo foglio del biglietto che sul retro aveva la carta copiativa, quello che in teoria doveva ritirare il controllore, e immergevi il secondo nella soluzione. Da lì a qualche minuto il miracolo si compiva: il foglio diventava immacolato, così che tu potevi riscriverci qualsiasi destinazione ti aggradasse. Su quello che ti restava in mano poi incidevi un piccolo quadrato, pressapoco corrispondente con quello che faceva la macchinetta obliteratrice delle Ferrovie dello Stato. La stazione di partenza diventava quella precedente, per simulare che il primo foglietto fosse stato effettivamente ritirato. La nostra era sempre Salerno, perché partivamo da Napoli. Lo usavamo regolarmente da quando avevamo quindici anni per andare a Milano, dove si facevano i concerti dei gruppi punk e metal che piacevano a noi. Non si sapeva chi lo avesse inventato. In Inghilterra lo usavano i Liverpool, in Italia lo introducemmo noi napoletani. Forse non era casuale, che il primato fosse conteso fra due città povere con un rapporto conflittuale e irrisolto con i loro rispettivi paesi. Va da sé che comunque ce ne fottessimo della palma da assegnare al vincitore: era patrimonio collettivo per un popolo di piccoli avventurieri che altrimenti sarebbero rimasti a specchiarsi nel grigiore delle loro periferie di Secondigliano e Kirkby. Là, nella terra di nessuno dei palazzoni, dove una volta c’era la campagna.

Purtroppo non esisteva metodo per procurarsi anche il biglietto del traghetto. E sì, perché si viaggiava in treni lenti e in nave, all’epoca mica esistevano i low cost, e il Tunnel della Manica sarebbe arrivato solo dieci anni dopo. Così si optava per Calais, Ostenda, con tratte più brevi a costo inferiore, ma in realtà ci imbarcavamo quasi tutti ad Amsterdam. Perché non potete immaginare lo stupore dei nostri occhi quando, dal Corso Italia di Secondigliano o dal Rione Amicizia, da Ponticelli o da Soccavo, ci ritrovavamo sul piazzale della stazione di ‘Dam, a contatto con lingue e popoli che avevamo visto al massimo sui libri di geografia. Certo, con le categorie di molti sedicenti rivoluzionari dei nostri tempi, noi eravamo dei truffatori, quelli che infrangevano le regole della sacra legalità. Ma a ben guardare avevamo semplicemente anticipato il capitalismo sul piano delle offerte flessibili: quel treno sarebbe partito lo stesso, con o senza di noi. E pure se erano solo 5000 lire, era comunque di più di quello che avrebbero incassato se non fossimo stati a bordo. Poi l’UK ti appariva come un sogno nelle nebbie dell’alba, con la costa e il porto di Harwich ad assumere nitidezza e dettagli, mentre il vento della Manica ti sferzava il viso e tu sorridevi. Sorridevi perché: fra’ te riend cont? Stamm jenn ‘over a Londra! Diceva così uno a caso di noi, dando di gomito all’altro. Infine, estraevi la tua carta d’identità scritta a mano dall’impiegato del comune sotto casa e l’officeralla frontiera, pur prendendola fra due dita con una certa riluttanza, doveva farti passare perché eri cittadino europeo. Una volta a Londra, entrando attraverso l’East End che allora era il vecchio cacatoio di sempre, con la crisi che aveva già spazzato i docks dal decennio precedente, raggiungevi un amico in uno squat. Gli squats erano case popolari occupate in un estate quasi sempre a Brixton o a Elephant & Castle, più tardi anche ad Hackney. Quando diventavamo troppi nello stessa casa, aiutavamo gli ultimi arrivati a squattarne un altro. Se fossimo rimasti nelle nostre periferie del Sud Europa, forse oggi saremmo fra quelli che dicono: tornatevene a casa vostra. Noi invece eravamo e siamo quelli che pensano che casa tua è ovunque tu sia in grado di arrivare. E poi di quelle case sfitte ce n’erano a migliaia, non toglievamo niente a nessuno.

Il resto lo faceva la social, l’assegno di disoccupazione. E risolto il problema della casa e di un minimo di reddito, ti mettevi poi in carreggiata, iniziavi a lavorare, provavi a restare. Così centinaia di migliaia di italiani, cittadini comunitari, si sono costruiti un’opportunità nel Regno Unito e vivono lì da dieci, quindici, trent’anni. Ecco, questi eravamo noi, la prima generazione dell’Europa unita, prima dell’Erasmus e dei voli low cost. Quella di giovani proletari, ragazzi poveri figli della classe operaia che avevano ancora accesso all’istruzione universitaria e proprio perché avevano maturato una visione del mondo attraverso i libri, desideravano vederlo di prima mano. Dopo la Brexit invece si assiste all’esultanza per le piccole patrie. Esultano pure quelli per i quali l’Inghilterra è un video di Nigel Farage condiviso. Se proprio volete capire perché una parte più o meno consistente della Britannia bianca e operaia ha scelto il Leave, leggetevi la trilogia di John King – Fedeli alla tribù, Headhunter, Fuori casa -, non fatevi ingannare dal fatto che sembra parlare di hooligans e di pallone. In realtà è la storia di tre generazioni della working class inglese. Oppure guardatevi il servizio della Bbc in cui un vecchio eastender, dice che nel quartiere è rimasto solo un pub e stanno per chiudere anche quello: «perché questi islamici non bevono». E non lo dico con snobismo, perché da vecchio innamorato follemente della vecchia Inghilterra, comprendo anche le loro ragioni. Ma nessuno mi convincerà che io non debba provare fino allo sfinimento a riconnettere queste passioni che sono le stesse, pur parlando una lingua diversa, senza arroccarmi sul piano di quegli stati-nazione che rifiutai da adolescente, scegliendo dove fosse casa mia. Perché in quei pub sono cresciuto, ci ho bevuto, ci ho incontrato l’amore acerbo dei diciott’anni. Quella Inghilterra è perciò anche la mia Inghilterra, molto di più di quanto non sia di Nigel Farage, dell’Ukip, e di quelli che pontificano rivoluzioni nazionali al riparo delle oligarchie di sempre. Facciamo così, se l’Inghilterra della Brexit mi consentirà di entrare senza nemmeno la carta d’identità, allora io vi dirò che mi sbagliavo e che avevate ragione. Ma se, come temo, col tempo mi ci vorrà un passaporto e un visto, allora avrete avuto torto. Come per Karl Marx aveva ragione il contadino che sfuggiva al giogo feudale scappando in città, inurbandosi. Perché le rivoluzioni sono sempre il passo avanti, mai quello indietro. Perché le città sono i luoghi più liberi di questo mondo che invece erige frontiere con il vostro consenso. Le città, multietniche e meticce. Casa nostra.