La Cina chiude le acciaierie più inquinanti. In Italia si tiene in vita l’Ilva di Taranto.

C’è un interessantissimo approfondimento di Gianluca Coviello, sulla pagina “Terroni di Pino Aprile”, a proposito del provvedimento del Governo cinese di chiudere le acciaierie più inquinanti, facendo il paragone con l’Italia e più in generale focalizzando l’attenzione sulla questione Ilva di Taranto.

Scrive Coviello:

La Cina chiude le acciaierie più inquinanti. L’Italia, invece, fa l’esatto contrario: tiene in vita l’Ilva, buttando milioni di euro degli italiani per salvare gli investimenti delle banche. Ovviamente perché Taranto è Sud. A Nord la produzione a caldo, quella più inquinante, l’hanno vietata da un pezzo. Non con una legge ma con i fatti. Quando a Genova le mamme scesero in strada e le istituzioni locali, unite, portarono avanti le lotte, fu l’allora direttore generale del Ministero dell’ambiente, Corrado Clini, a pronunciare queste parole: “La chiusura dell’altoforno e della cokeria delle acciaierie è una questione urgente. Sul piano dei danni ambientali, dell’inquinamento e della salute dei cittadini siamo già in ritardo”. Poteva permettersi queste parole da “Masaniello del Nord-Ovest” perché c’era Taranto. Quelle stesse cokerie, così pericolose secondo l’ex Ministro dell’Ambiente, vennero portate in riva allo Ionio potenziando la produttività (e l’inquinamento) dello stabilimento. Così, come si butta la monnezza dentro al cassonetto.

Più recentemente, quello stesso Clini “ambientalista”, così come chi l’ha succeduto, ha difeso a spada tratta la produzione a Taranto anche di fronte all’evidenza dei numeri che indicano nell’acciaio un settore sempre meno prolifico in Europa. Non è necessario citare cifre per comprendere che i conti non tornano nelle scelte degli ultimi governi. Si potrebbe, addirittura, ignorare il fatto che gli studi indichino che la richiesta di acciaio nel vecchio continente calerà ulteriormente e che oggi l’Ilva di Taranto viaggi al minimo, accumulando debiti e non ricchezza. Basterebbe semplicemente tenere presente che una volta che in un territorio si è costruito tutto, dalle case alle auto, la sola esportazione non può motivare la sopravvivenza di uno stabilimento così grande e problematico. Bisogna inventarsi altro visto che il suolo edificabile è stato consumato quasi tutto (altro disastro) e non si può chiedere agli italiani di cambiarsi l’auto ogni due-tre anni.

I paesi emergenti, che tra l’altro hanno anche le materie prime che invece l’Italia importa, hanno imparato a farsi l’acciaio a casa propria. Tra questi, la Cina ha iniziato da un pezzo. Ha fatto della siderurgia il proprio fiore all’occhiello anche se con danni pesantissimi per l’ambiente. Grazie alle proteste e alle pressioni della società civile, però, qualcosa sta cambiando: è stata fatta una legge ad hoc per permettere al Governo di intervenire contro chi commette reati ambientali (è entrata in vigore lo scorso gennaio); è stato istituito un dicastero specifico e si è iniziato a chiudere le fabbriche più inquinanti.

Nella città di Linyi (nella regione di Shandong) molte fabbriche sono state fermate e difficilmente riprenderanno la produzione. Come mai proprio da Linyi si è cominciato? Perché lì si sono concentrate la maggior parte delle manifestazioni popolari. Un ruolo importante nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica l’ha svolto anche un film realizzato dal regista Chai Jing dal titolo “Under the Dome – Investigating China’s Smog”.

Sempre lungo il parallelo tra la Cina e l’Italia è molto interessante quanto dichiarato da Cheng Xubao, un analista della Custeel, e riportato dal sitowww.greenreport.it:: “La lotta di Pechino contro l’inquinamento farà aumentare i costi per le acciaierie ed obbligherà quelle che non sono competitive a mettere la chiave sotto lo zerbino”.
È una considerazione utile a riflettere se confrontata con quanto sostenne il Tribunale del Riesame nel rigettare il ricorso dell’Ilva alla richiesta di sequestro firmata dal gip Patrizia Todisco. È luglio del 2013, un anno esatto dopo che la Magistratura, con l’inchiesta “Ambiente Svenduto”, aveva scoperchiato il vaso di Pandora che conteneva tutti (o quasi) i segreti dell’Ilva. Si legge: “Appare evidente che la produzione degli eventi delittuosi, le deficienze impiantistiche mantenute dai vertici aziendali e non adeguatamente eliminate e le violazioni di legge sono sicuramente in rapporto di immediata derivazione causale con il vantaggio patrimoniale conseguito dall’azienda per effetto degli ingenti risparmi economici realizzati”.
Non serve aggiungere altro.

In una cosa, però, l’Italia sta scegliendo di fare come la Cina: negli aiuti di Stato. Mentre l’Europa è pronta a mettere dazi contro l’acciaio orientale sostenuto dal Governo, fa quasi finta di nulla di fronte al commissariamento dell’Ilva e lo stanziamento di incredibili risorse per fare quello che sarebbe dovuto toccare al privato (si ricorda che solo una parte ridottissima di esse è destinata alle bonifiche; la quasi totalità della cifra verrà usata per ammodernare alcuni impianti che resteranno comunque nocivi alla salute umana e all’ambiente). Alla faccia della direttiva europea in materia ambientale che sancisce il principio “chi inquina paga”.