Made in Italy sulla pelle dei migranti: i video dell’inchiesta

Lo avevo scritto un paio di anni fa, confermato dalle associazioni di categoria campane: i grandi marchi della moda avevano deciso di abbandonare la delocalizzazione extra UE (nell’esempio che feci si parlava di calzature) e tornare in Italia. In modo specifico avevano deciso di investire in Campania, dove, per sopravvivere alla grande crisi, almeno all’inizio, le piccole fabbriche a gestione familiare impiegavano manodopera proveniente direttamente dal nucleo parentale, con turni di lavoro massacrante, pur di “continuare a sopravvivere”. Qualche volta si “chiamava” qualcuno di esterno.

Il mito della Campania a basso costo ha iniziato ad ingolosire, successivamente, anche marchi più piccoli. E così, chiacchierando con gli operatori del settore a nord del Garigliano, in tanti hanno spostato alcune fasi della produzione proprio nel distretto calzaturiero a cavallo delle province di Napoli e Caserta (ma anche in Puglia).

Il volume d’affari nel corso degli anni è cresciuto, le piccole fabbriche a conduzione familiare non avrebbero potuto farcela da sole.
E ieri, guardando l’inchiesta, ho capito perché:

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