Monnezza in Campania: ovvero il patto tra camorra e ditte del Nord

 

Monnezza in Campania: ovvero il patto tra camorra e ditte del Nord

Sul Mattino di questi guiorni c’è un interessantissimo articolo di Rosaria Capacchione che rinfresca la memoria sulle origini della crisi della monnezza napoletana.

Sui quintali di rifiuti che bruciano diossina nella terra dei fuochi mietendo vittime, con l’incidenza di +47% (rispetto alla media nazionali) di tumori. Ma i napoletani, ed i campani, sono monnezza da lavare col fuoco del Vesuvio, secondo la vulgata da stadio in salsa padana.

C’è una cosa che fa notare la Capacchione, che da qualche anno vive sotto scorta, pur non avendo mai scritto alcun best seller da cui fu tratto un film:

Si scopre, cioè, che in tutte quelle carte mancano i nomi: di mediatori, di lobbisti che hanno tessuto la strategia, di uomini delle istituzioni che hanno tollerato o coperto il traffico di rifiuti, di industriali che hanno approfittato dell’offerta a costi bassi per smaltire milioni di bidoni di sostanze velenose finiti nelle terre di Giugliano, Villaricca, Villa Literno, Casal di Principe, Maddaloni, Marcianise. A voler riunire le 191 inchieste in una sola, si scopre che raccontano, dunque, una storia incompiuta, piena di buchi: quelli delle discariche abusive e quelli delle conoscenze investigative, interrotte quasi sempre a mezza strada”

Ma quando inizia Gomorra? Partiamo dall’inizio, e cioè dal racconto dell’imprenditore Pietro Colucci che data la nascita dell’ecomafia facendola coincidere con l’emergenza rifiuti in Lombardia e Toscana, nel 1985. Colucci ha riferito dei camion che arrivavano dal Nord e che finivano nelle discariche di Sessa Arunca e Castelvolturno.
Ebbene, la prima – regolarmente autorizzata – fu chiusa a furor di popolo (a capo del comitato c’era Raffaele Nogaro, il vescovo che allora reggeva la diocesi di Sessa e che poi passò a Caserta); l’altra, che era sempre stata abusiva, è poi diventata lo snodo centrale del sistema di smaltimento che faceva capo alla camorra casalese e mondragonese. Ai tempi delle proteste a Sessa Aurunca, i carabinieri fermarono decine di camion carichi di rifiuti che sversavano illegalmente l’immondizia nell’impianto di Giacomo Diana. Il quale fu denunciato ma mai fermato. Aveva ottenuto – ma da chi? – un salvacondotto che si rivelerà necessario al prosieguo della storia e alla crescita del sistema dei consorzi di bacino.

Ed ancora:

 Che Chianese fosse una pedina importante del sistema si era scoperto, però, già nel 1992, con le dichiarazioni del primo pentito ecomafioso: Nunzio Perrella da Fuorigrotta, l’uomo che aveva abbandonato il traffico di droga per dedicarsi a quello, ben più redditizio, di rifiuti, socio in affari di Gaetano Vassallo (che ha iniziato a collaborare con la giustizia sedici anni dopo), di Gaetano Cerci (parente del capo casalese Francesco Bidognetti), di imprenditori liguri e toscani.

Un sistema che, secondo la Capacchione, aveva Licio Gelli tra gli attori principali: Eppure, nel 1995, l’allora capo della Procura di Napoli, Agostino Cordova, nel corso di un’audizione in commissione ecomafie, aveva lasciato intendere che ci sarebbe stata presto una svolta. Nella ricostruzione della Dda, Licio Gelli era necessario per l’accordo in quanto in possesso di una fitta rete di contatti con gli imprenditori del nord Italia che avrebbero dovuto fornire i rifiuti.

Emigrazione, rifiuti tossici, industria pesante (Ilva): così fu segnato il destino dei meridionali.

L’articolo completo:

http://www.ilmattino.it/articolo.php?id=214739&sez=NAPOLI

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