Pietrarsa (Napoli), agosto 1863: la prima strage di operai in Italia

6 agosto, 1863

Corre voce, e non sembra che sia solo tale, che il nuovo direttore voglia aumentare le ore lavorative e ridurre la paga. Non mi sembra che questa sia una buona idea, la gente è stanca, ci trattano come bestie eppure, noi operai metallurgici siamo il fiore all’occhiello di questo regno e del passato, i nostri prodotti sono tra i migliori che si possano trovare in Europa.

Le nostre macchine ferroviarie viaggiano senza problemi lungo le strade ferrate, le stesse che produciamo noi, i nostri motori muovono le più belle navi del Mediterraneo, siamo bravi, perchè non vogliono capirlo?

Oggi siamo andati dal direttore, il signor Bozza, un lombardo che di noi sa poco o niente, egli imperioso ha ascoltato le nostre richieste e alla fine ci ha comunicato: “Conoscete la situazione, lo stabilimento è in perdita quindi dobbiamo risanarlo, per far ciò abbisogna incrementare le ore di lavoro e scemare la paga da 32 a 30 grana al giorno”, “ma signor direttore”, replico “lei ha intenzione di ammazzarci tutti?” e come risposta ottengo solo una frase “questo è quello che meritate, animali, se vi sta bene è così altrimenti licenziatevi”.

Siamo infuriati, delusi e avviliti, scendiamo nel piazzale davanti agli uffici dove i nostri compagni ci aspettano per conoscere le notizie, “abbiamo fallito” dico “Bozza non vuol sentire ragioni, ha detto e confermato che dobbiamo lavorare di più e con meno soldi e chi non ci sta se ne può andare”, non avessi mai pronunciato quelle parole, un’unico grido si alza dai miei compagni, “Fermiamoci, non lavoriamo e blocchiamo l’opificio”.

Le voci tumultuose si elevano e rendono rovente questo già caldo pomeriggio, ingiurie, minacce neanche troppo velate vengono elevate alla volta del Bozza.

“Sta scennenno, facitelo passare” grida un compagno, “facitelo passare” e intanto giù ingiurie “Curnut”, “figlio e puttana”, “chi te muorto”, Bozza fugge via inseguito dalle urla.

Chiudiamo i cancelli alle spalle del direttore così che nessuno possa entrare e restiamo li, sul piazzale davanti alla palazzina in attesa di qualcosa che non sappiamo quale.

Si discute, si fa capannella, chi si siede all’ombra per ripararsi dal sole, e ogni tanto guardiamo verso il cancello.

Passa un’ora più o meno, e sentiamo dei passi di corsa che arrivano dalla Via Regia, “song ‘e surdati, aprite o canciell” urla ‘o turrese e un paio di noi vanno ad aprire.

Sono arrivati, sono bersaglieri, una compagnia intera, sono gli stessi che hanno combattuto a Palestro e a San Martino, sono gente del popolo anche loro, si notano le facce di contadini, gente abituata a zappare la terra ma noi in loro vediamo l’autorità e li invitiamo a voce forte di andarsene.

Il loro capitano li mette su due linee di fronte a noi e ci urla degli ordini in una lingua che non conosciamo, non lo capiamo, ma che dice?

Visto che non gli rispondiamo grida verso i suoi soldati che alzano i moschetti, “Cazzo, ci sparano” urlai e cominciai a correre verso il mare. Subito dopo una scarica di fucilate e un’altra ancora.

Urla di dolore mi prendono immediatamente ma ho le gambe in spalla e corro, corro, il mare è vicino e poi ancora mi volto a guardare senza fermarmi, tanti miei compagni sono a terra, chi immobile, chi gemente e i soldati innestano la baionetta, caricano con la lama abbassata.

Tutti scappiamo verso il mare, l’unico punto di salvezza, ma ci raggiungono, in molti restano per terra ma la maggior parte di noi ce la fa a raggiungere l’acqua e ci buttiamo dentro, io so nuotare ma vedo che altri non ci riescono, annaspano, riesco a prendere un compagno per il collo e lo porto via con me, lo sforzo è grande e sulla banchina i soldati continuano a spararci addosso anche nell’acqua.

Ce l’ho fatta, mi sono salvato e con me il compagno che ho trascinato via, ma mancano tanti altri miei amici, dove sono?

Prendo terra più avanti, non ho più forza nelle braccia.

Siamo a Pietrarsa, nello stabilimento siderurgico il giorno 6 Agosto 1863 ore 3 del pomeriggio. Si contano alla fine 5 operai morti nella prima carica e altri 2 colpiti in acqua, i feriti sono circa 20 di cui 7 gravi ospitati ai Pellegrini altri invece si sono ricoverati in casa propria, può essere che siano molti di più.

La storia è una libera ricostruzione dei fatti tratti da documenti originali dell’epoca, la narrazione èun momento creativo ma la realtà dell’evento è molto più cruda.

Il gruppo milanese degli Stormy Six, negli anni 70, dedicò al triste evento questa canzone.