Pontelandolfo: quello che gli storici con la “patente” non dicono

Il guanto della sfida è ormai stato lanciato da un pezzo.
Da una parte giornalisti e scrittori (Pino Sprile, Gigi di Fiore, Gennaro de Crescenzo, Lorenzo del Boca, Angelo Forgione, Marco Esposito, Lino Patruno) senza patente di storico, anche se, inqualche caso, specializzati in archivistica, e tutti gli storici, con la patente,pregni di risorgimentalismo.
Quello puro, mitico, dei buoni che redimono i terroni incivili che, nonostante tutto non riescono ad affrancarsi dalla loro minorità. Quelli del tipico bigottismo dell’italiano brava gente, che  non fa mai la guerra ma esporta sempre da 153 anni, democrazia e libertà ove richiesto. E lo fa senza colpo ferire. Su bianchi destrieri avvolti dall’aura dell’eroismo e della santità.
In questa ottica il lager di Finestrelle è una invenzione dei neobbobonici, Lombroso era un rispettabile scienziato che crea pericolosi precedenti in altri paesi, ma tutti fanno finta di non vedere le somiglianze, e Pontelandolfo una rissa di paese.

Proprio a proposito di Pontelandolfo, il professor Gennaro de Crescenzo, specializzato in Archivistica presso l’Archivio di Stato di Napoli, scrive:

Nell’articolo del’11/3 pubblicato da Giancristiano Desiderio sul Corriere del Mezzogiorno nel titolo e nel testo si evidenzia che i morti di Pontelandolfo “furono solo tredici”.
Desiderio riporta i dati di una pubblicazione (di circa 15 anni fa!) di Fernando Panella ma, preso dal desiderio di “ridicolizzare la vulgata corrente” (in testa i dati di Pino Aprile), non riporta interamente le verità di quella ricerca così come aveva fatto correttamente lo stesso Pino Aprile (!) dimostrando di non aver letto bene né i suoi “avversari” né le sue stesse fonti.
Prima di tutto se Desiderio avesse frequentato sistematicamente gli archivi
saprebbe bene che, quando si parla di libri di morti parrocchiali, si tratta sempre di dati del tutto parziali: non sempre, specie in situazioni di estrema gravità come quelle di cui stiamo parlando, c’era il tempo o il modo di registrare i morti sui libri e, come attestato da Panella, “non tutti i feriti e gli ustionati perirono subito”.
Lo stesso ricercatore testimonia che i registri civili del Comune andarono bruciati e la sua pubblicazione, del resto, fa esplicito e corretto riferimento già nel titolo ai soli “documenti parrocchiali”.
E’ chiaro che (visto che i registri furono bruciati) a Casalduni, come evidenziato da Desiderio, non risultassero morti.
Molto simile ai libri del periodo risorgimental-fascista (che puntualmente criminalizzavano o ignoravano Pontelandolfo) il raffronto tra i soldati italiani uccisi (45, si scrive nell’articolo ma erano in realtà 41, come scientificamente dimostrato da Gigi Di Fiore) e quei civili innocenti massacrati con modalità davvero troppo simili a quelle utilizzate a Marzabotto.
Lo stesso Panella sostiene che “la pena doveva esercitarsi contro i singoli colpevoli e non contro la città”.
E se il bersagliere Carlo Margolfo, testimone oculare del tempo, riferisce che, appena entrati in paese, avevano “incominciato a fucilare i preti ed uomini, quanti capitava” (“quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti, e chi sotto le rovine delle case”…); se lo stesso Mastrogiacomo, altro testimone oculare citato (ma non del tutto) nell’articolo attesta che morirono arsi “poveri infermi, ciechi, zoppi e anime innocenti”; se lo stesso giornale filo-governativo Il “Popolo d’Italia” parla di 164 morti; se lo stesso Panella, incrociando i dati (sempre parziali) dei morti dei mesi successivi e confrontandoli con quelli (pure parziali) dei morti degli anni precedenti evidenzia che l’incendio non solo arrecò danni ingenti alle case, ma “si deve ritenere la causa diretta di tanti decessi e il dato di centinaia di vittime è forse esagerato ma più vicino alla realtà”, “negazionisti”, allora, sarebbero quelli che parlano di 13 morti o quelli che evidenziano la necessità di continuare le ricerche e di rispettare la nostra memoria storica?
Una sola considerazione.
Per Desiderio questi sono stati “anni balordi e incattiviti”.
Come dire: se raccontate certe cose siete “balordi e cattivi” (e sarebbero tali anche gli stessi Paolo Mieli o Gian Antonio Stella) e, evidentemente, è meglio ignorarle come è stato fatto da quelli “intelligenti e buoni” per 150 anni…
Solo che senza “balordi” senza “cattivi” (altro che “negazionisti”) nessuno oggi conoscerebbe i fatti di Pontelandolfo e tante verità su come l’Italia è stata unita.

Se in occasione del 150esimo dell’unità anche il Capo dello Stato ha portato le scuse della Nazione a Pontelandolfo, tra l’altro, un motivo ci sarà. O lo ha fatto per una semplice scaramuccia di paese?

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