Uli Forte: “amm’ pigliat na bastonat e mo ce n’amma ij”

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Uli Forte è nato a Wangen-Brüttisellen. Ora, a dispetto del nome e del luogo di nascita, Uli è uno svizzero italiano, anzi napoletano. Ex calciatore e figlio di emigranti campani. Allena lo Young Boys, la squadra di calcio di Berna.

Una leggenda metropolitana lo voleva, negli anni 80, presente al San Paolo alla presentazione di Diego Armando Maradona. Il mister ha smentito, proprio ieri sera. Ma ogni leggenda metropolitana, si sa, è l’esasperazione di una verità, resa grottesca e paradossale. Uli infatti è tifosissimo del Napoli e di Napoli.

Ieri sera si è presentato alle telecamere di Mediaset Premium e davanti all’intervistatore,  rimproverato dai tecnici partenopei perchè aveva definito il napoletano un dialetto e non una lingua tutelata dall’Unesco, si è esibito in una fiera manifestazione di appartenenza ed identità. Condensando la batosta rimediata, dalla propria squadra, al San Paolo, in una sintesi perfetta nella lingua di Partenope. Come solo i napoletani sanno fare: «Non ero al San Paolo nell’84’ quando fu presentato Maradona. Avevo dieci anni, ricordo tutto di quel giorno ma ero a casa. Tutti i miei parenti parlano in napoletano, cca nisciun è fess ma purtroppo amm’ pigliat na bastonat e mo ce n’amma ij. »

Oltre le frasi di circostanza e gli sterotipati : “la squadra ha giohato bene, abbiamo avuto millemila halci d’angolo, il napoli è una squadra forte, sull’arbitro avete detto tutto voi, ecc..” che da queste parti ben conosciamo.

Uli Forte ha sdoganato il napoletano in una intervista ufficiale, l’ha resa lingua da comunicazione televisiva e non dialetto da avanspettacolo, dimostrando, tra l’altro, ottima padronanza della lingua. Come se la parlasse da sempre e quotidianamente.

La cosa non mi stupisce. A dodici anni mi sono trasferito in Belgio (di cui fui pure cittadino con tanto di carta d’identità vallona)  nella provincia dove Elio di Rupo allora, faceva solo il sindaco. Naast si chiamava il luogo in cui i nipoti di Marcinelle erano più o meno miei coetanei.

Gli italiani con la puzza sotto al naso andavano a studiare nelle scuole internazionali per imparare la lingua, io, che di francese sapevo solo dire : oui je suis catherine deneuve, fui mandato, nei mesi estivi che precedevano l’inizio della scuola, per strada. A giocare a tenìs o futbòl. A Settembre il mio francese vallone dascugnizzo di strada era perfetto. Compresa la giagulatoria delle peggiori parolacce che solo i belgi del sud avrebbero potuto comprendere. Compreso septante per “settanta” e nonante per “novanta”, al posto del soixante-dix. Inclusa l’intolleranza e la discriminazione dei fiamminghi (verso noi i valloni) che proprio allora iniziarono a chiedere un paese federale e diviso.

Badate, io il francese non l’avrei mai imparato se gli insegnanti di strada, con cui condividevo interi pomeriggi sui prati perfetti degli spartitraffico, non fossero stati figli di emigranti. Nicolas (che poi era Nicola, figlio di un pugliese ed una siciliana) e David figlio di una napoletana, che, di italiano, non spiccicavano una parola. L’unica lingua che parlavano oltre al fiammingo ed al francese era il napoletano. Quello che, linguisticamente e politicamente, aveva unito il Tronto a metà della Calabria.

Così, quando durante una partita l’ariano belga mi fissava truce con un “connard passe la balle” , Nicolas e David senza un minimo di compassione traducevano didascalicamente: “A’ ritt, nè strunz pass o’ pallon”.

L’esordio della nostra amicizia fu durante una festa di paese quando in lontananza si avvertivano lugubri botti. Ero arrivato da qualche giorno e la comunicazione era sostanzialmente gestuale e fortemente gutturale. David sapeva soltanto che ero italiano, ma l’italiano non lo parlava nonostante l’ascendenza materna. Cercava, dunque, di spiegarmi a gesti. Continuavo a non capire. Stremato dall’incomunicabilità, dopo uno sbuffo, esplose: “allor, chist piglian o’ martiell a sott tenen e bott. Accumencen a dà e martellat ngopp e bott e fann bàm, e capit mò?!”.  Si, era stato chiarissimo.

Perchè il napoletano, come il veneto, il siciliano e il sardo sono “lingue madri” e le conosci perchè te le porta in dote il dna. Sono una sorta di retaggio ancestrale senza filtro. Sono appartenenza ed identità orgogliose, latenti ed inconsapevoli.

Ed Uli Forte, nato a Wangen-Brüttisellen, lo sapeva. Come tutti i figli di emigranti. Nonostante le madri che, in patria, ci volevano italiani perfetti vietandoci di parlare in “dialetto”.

Articolo pubblicato per il Napulegno