Caro direttore, nelle “fabbrichette” all’ombra del Vesuvio la schiavitù accomuna l’imprenditore e l’operaio

Un vecchio giornalista radiofonico una volta mi disse: poichè i “vuoti radiofonici” sono brutti, quando non sai che dire o un interlocutore parla di qualcosa che non conosci, affidati a quanto è già di dominio pubblico, snocciola retorica e luoghi comuni, così magari fai pure bella figura, la gente crede che tu sia preparato su tutto (probabile che qualche lettore pensi non mi sia mai scrollato di dosso, ahimè, questo insegnamento).

Ho pensato la stessa cosa stamattina guardando un video che rimbalza in rete, del direttore della filiale campana del più grande quotidiano nazionale, punto di riferimento di moderati, liberali, liberali laburisti, radical chic, imprenditori illuminati, think tanker e quant’altro.

Hanno chiamato ‘o direttore, per parlare di Napoli, con cognizione di causa, per una manciata di minuti in occasione della visita del Papa. E ‘o direttore così si è espresso:

 «Il problema è che tutto questo [la mancanza di lavoro e il lavoro nero] non è neanche più un’emergenza, cioè qualcosa di destinato a migliorare sensibilmente quando ci sarà la tanto agognata ripresa. Il problema è che neanche quando l’Italia cresce il Sud cresce più. Si tratta di una piaga infetta sul corpo della Nazione che comporta anche un enorme costo sociale per l’Italia intera».

Insomma non c’è niente da fare, anche perchè il servizio si chiude proprio su quelle parole, alla faccia della speranza evocata da Bergoglio.

Caro direttore potrei annoiare lei e il lettore con la facile retorica sui costi delle corruttele scoperchiate dalle recenti inchieste giudiziarie e che riguardano lavori pubblici che non hanno come scenario nè il Sud nè imprenditori meridionali e quindi potrei chiederle a quanto ammonterebbe in questo caso il costo sociale di certi comportamenti per i meridionali stessi, senza infrastrutture nè treni, nè strade e che pure pagano le tasse secondo le proprie possibilità.

Non lo farò. Mi ha molto colpito invece il racconto delle “fabbrichette” (la doppia consonante è voluta) come le chiama lei, all’ombra del Vesuvio, dove ai tavoli vi sarebbero, secondo quanto afferma, ma non l’ho mai letto sul suo giornale, immigrati incatenati, sono distratto (veramente  è più probabile che ci siano autoctoni che immigrati ma il senso non cambierebbe comunque la sostanza.).

Non so se sono gli stessi opifici che conosco io ma se ne trovano tante anche in Terra di Lavoro, di queste realtà che, ad esempio, quelle calzaturiere, da qualche anno raccolgono commesse di aziende e marchi (griffe note in tutto il mondo) che trovano l’investire da noi piuttosto che in Cina (pensa te, chissà perchè) più conveniente. Magari pure aziende che, dopo il fallimento, sono miracolosamente rinate con altro nome, hanno spostato la sede legale all’estero e che, in Italia, hanno fatto ricorso agli ammortizzatori sociali che gravano, anche questi, sulla collettività.

Se lei si facesse un giro per quelle “fabbrichette” si accorgerebbe che nella maggioranza (se non totalità) dei casi si tratta di piccole aziende a conduzione familiare che riducono all’osso i margini di guadagno per essere più competitive e per le quali la catena di cui lei parla è quella dei debiti contratti (e da estinguere) per acquistare macchinari o ingrandirsi e sperare di raccogliere quante più commesse possibili dai grandi marchi (che in qualche caso sono pure editori di quotidiani) e cercare di sopravvivere. Prima che ovviamente il committente non le ricatti minacciando “da tizio pago di meno quindi o abbassi i costi o me ne vado” e allora il titolare della “fabbrichetta” all’ombra del Vesuvio lavora pure 24 ore al giorno insieme all’operaio per trattenere il committente e salvare capra e cavoli.

Che poi lo sa, direttore, che giù al Sud, il costo del denaro è più alto rispetto a quello dell’ Italia buona e civile che a lei piace tanto? Per non parlare delle tariffe Rc Auto…E allora, direttò, usando un dialetto che magari le è più familiare, “ma de che stamo a parlà”? Siamo proprio sicuri che ‘e malament siamo sempre noi? Siamo proprio sicuri che siamo noi a “gravare” sulla Nazione senza nessun vantaggio per gli “altri”? Come vede la catena della schiavitù, giù al Sud tiene uniti i padroncini e le risorse umane con medesima sorte ed il cetriolo, ha riservato lo stesso percorso per entrambi…

A 1.26 l’intervento del direttore