Pino Aprile: vi racconto il mio Squitieri

Dal proprio profilo Facebook, Pino Aprile racconta il “proprio” Pasquale Squitieri, con una serie di aneddoti interessanti a proposito del regista de “Li Chiamarono Briganti”, rivelando che avrebbe voluto realizzare un nuovo film proprio sul proprio Sud.

Un brigante in meno; e nessuno ha raccontato i briganti come lui. Pasquale Squitieri è andato a litigare da qualche altra parte. Resterà nella storia del cinema. Ma io ne parlo per un film che fece, e che tutti abbiamo visto di contrabbando, e per uno che non fece.
Mi chiamò: «Dobbiamo fare un film per “Terroni”, perché non ne parliamo?». Ci vedemmo al bar Rosati a Roma, in piazza del Popolo, che era una specie di suo ufficio. «Ma hai già fatto “E li chiamarono briganti”», obiettai. «Non rischi di fare un doppione?». Mi mise subito a posto: quello che faceva i film era lui, io scrivevo libri. Ci vedemmo altre volte; spesso, all’ultimo momento mi avvisava che non poteva. Stava male, aveva dolori forti.

Alcune volte, mentre parlavamo, si interrompeva per qualche fitta e se la prendeva con se stesso: quasi facendosi colpa del suo male. Non accettava di considerarsi a scartamento ridotto. Subito, però, ricominciavamo a progettare. «Quanto tempo hai?». «Poco, Pasquale. Ma per un film con te, su questi temi, butto tutto a mare per sei mesi». «Ci vogliono due anni per farlo come si deve». Ahi!
E, un giorno, cominciammo a immaginare la trama. Io vedevo la storia legata alla vita di una sola persona, un sopravvissuto di Pontelandolfo, figlio di una delle donne stuprate dai bersaglieri. Lui non ne era convinto. Mi disse: «E quale sarebbe la prima scena?». Qualche giorno dopo gli esposi un’idea. Non la bocciò, ma inziò a chiedere: «E dopo che succede?». Suggerivo qualcosa, e lui: «No, no, che cazzata. E se…?». «Sì, ma…». Alla fine, la storia prese forma.
Ma lui ebbe qualche problema in più e le assenze erano sempre più lunghe; io ero sempre più in giro e quando poteva lui non potevo io. Ci sentivamo per telefono. Ci vedemmo a Catania, per una serata con il suo film e il mio libro, in una piazza piena. Poi io mi dedicai agli altri libri.
Mi raccontava del suo film sui meridionali a Torino; la sua rabbia perché ne avevano voluto le braccia, ma non ne sopportavano la vista, infatti i quartieri per i terroni erano a parte, fuori città; mi disse come aveva filmato nella Fiat, anche se non volevano. Era disgustato, perché gli intellettuali del tempo lo avevano lasciato solo (lui spirito anarchico eletto con la destra), pure quando riuscirono a mandarlo in galera.
Mi disse come aveva fatto “E li chiamarono briganti”, con quattro soldi, incluso i suoi. «Hai visto tutte quelle scene a cavallo? Hai notato che i cavalli, nel film, sono sempre diversi? Sai cosa costa, al giorno, nel cinema, una cavalcatura? Così, io li noleggiavo al macello, a 50mila lire. Ma il giorno dopo, erano già sui banchi del macellaio. Insomma: cambiavano sempre…».
«Ma perché hai venduto i diritti del film alla Rai?», chiesi. Mi spiegò che si era messo nei guai, economicamente, per portare a termine l’opera. Che vide boicottata, perché trasmessa in pochissime sale, per un paio di giorni, se ricordo bene. Quindi, escludendo la possibilità di recupero delle spese. E, a quel punto, non ebbe scelta. La Rai acquistò il film per nasconderlo, di fatto.
Chi si occupa di questi temi sa che ci scambiavamo le copie pirata; lo vedevamo al computer, da soli, o in salette carbonare… È stato fatto un gran torto a tutti noi, agli italiani, a un grande autore dal carattere duro, difficile, controverso, che spiazzava per le scelte a volte estreme, ma sempre passionali, forti. Capace, me lo ricordo, di intervenire in una trasmissione radio, telefonando non atteso e non invitato, e ribaltare il conduttore che su come fu unificata l’Italia non la stava dicendo giusta. Non ricordo se era lo stesso con il quale avevo discusso, su Terroni, con uso di spigoli, diciamo. Neanche il tempo di riattaccare il telefono e mi arrivò la chiamata di approvazione di Pasquale.
Era un combattente. Qualche volta mi pareva esagerasse. Combinai un incontro con lui e Nicola Bove, presidente della proloco di Casalduni: voleva invitarlo per la commemorazione dell’eccidio, con proiezione del film. E gli disse che ci sarebbe stato, fra i tanti relatori, anche un piemontese (no, non Del Boca), ottima persona, onesto intellettuale. Appena sentì “piemontese”, Pasquale cominciò a trattare il buon Nicola e il suo accompagnatore a pezza da piedi. Era (al solito) al bar Rosati.
«Ah, Pi’», mi chiamò mortificatissimo Nicola, «ci ha fatto fare ‘na figura… Una mortificazione!». «Pasquale, ma che ti ha fatto Nicola? È la persona più mite del mondo!». «I piemontesi, Pino. Ti rendi conto? Mi voleva mettere con i miei nemici!». Tentai, stupidamente, di obiettare che non ha senso generalizzare. Alzò subito la voce: «Ooohh! Non ti permettere: sono i miei nemici. I nostri nemici!». Capii che non era il caso di dire: e Lorenzo Del Boca, allora? E Piero Gobetti? E… lasciai perdere, perché non è vigliaccheria, è capire quando la battaglia è inutile.
Pasquale era così. Prendere o lasciare. Un lupo solitario che vinceva e perdeva le sue battaglie contro tutto e tutti, fottendosene delle forme, delle mode, delle convenienze. Ma capace di mettersi nei guai, per raggiungere il risultato, per via diretta o scorciatoia. Uno tosto. Uno vero. Uno difficile con cui aver a che fare. Ma meno male; perché solo uno così poteva fare “E li chiamarono briganti”, l’equivalente, nel cinema, di “Brigante se more”, di Eugenio Bennato, nella musica.
Quando si progetterà il nostro Olimpo, accanto ai Giacinto De Sivo, i Francesco Proto, i Carlo Alianello, gli Antonio Gramsci, i Nicola Zitara, gli Angelo Manna, i Silvio Vitale, i Michele Topa, i Pietro Golia, i Tommaso Pedio e i tanti, tanti altri, Pasquale Squitieri ci sarà. Magari in disparte e di cattivo umore, perché non gli piaceva intrupparsi. Ma ci sarà, mentre Lina Sastri urla e piange il monologo “briganti o emigranti” che chiude il suo film e racconta la nostra storia taciuta da questo secolo e mezzo.