Viesti: tagliare al Sud non costa nulla

Anche Il professor Gianfranco Viesti interviene nel dibattito della “distrazione” e la “redistribuzione”dei fondi destinati al Mezzogiorno.

Ecco cosa scrive su ItalianiEuropei:

Con l’articolo 12 della legge di stabilità per il 2015 (ora commi 123 e 124, NdR) il governo ha disposto la cancellazione di investimenti nel Mezzogiorno per 3,5 miliardi di euro, tagliando le risorse del Piano di azione coesione. Ciò che colpisce in questa scelta è la mancanza di motivazione specifica: non si trattava di risorse in scadenza, né di risorse destinate a Regioni inefficienti (dato che per metà l’attuazione del Piano è responsabilità di amministrazioni centrali); tantomeno si trattava di risorse frammentate, dato che esse miravano a grandi, condivise priorità. Non a caso non viene disposto, con la norma di legge, quali interventi saranno tagliati: il governo, semplicemente, usa le risorse per gli investimenti nel Mezzogiorno come un bancomat, esattamente come fatto più volte dal governo Berlusconi nel 2008-2011. Non ha giustificato questa decisione e, cosa assai rivelatrice, quasi nessuno gli ha chiesto di farlo, quasi nessuno ha protestato. Il che spiega bene perché si riducono le risorse per investimenti nel Mezzogiorno: perché non costa nulla politicamente.

Viesti non è mai stato tenero con le politiche dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni. Sempre su ItalianiEuropei scriveva:

Nel periodo in cui si registra il peggiore andamento per l’economia del Mezzogiorno dall’Unità a oggi, con un arretramento di oltre 13 punti di PIL nel 2013 rispetto al 2007, per un curioso paradosso la riflessione culturale e politica sulle sue possibilità di ripresa e sulle concrete politiche per realizzarle è anch’essa ai minimi storici. È l’effetto di una deriva che viene da molto lontano: quella di “abolire il Mezzogiorno” e ridurre le politiche di sviluppo territoriale in Italia. Una deriva rispetto alla quale sono stati modesti l’interesse e la capacità di risposta della politica e in particolare di quelle forze che si ispirano a principi di progresso sociale e di maggiore uguaglianza fra i cittadini. Deriva oggi aggravata dagli effetti delle politiche di austerità, nazionali ed europee, dalla vera e propria “trappola” in cui è serrata l’economia europea.

Ed ancora:

La tesi dello spreco meridionale si rivela utile per operazioni politiche controverse. Il governo ha ad esempio annunciato l’intenzione di ridurre il cofinanziamento nazionale dei programmi dei fondi strutturali in Campania, Calabria e Sicilia dal 50 al 25%, perché queste Regioni sono in ritardo nella spesa. Una mossa utile per far quadrare i bilanci nazionali, ma che determina il paradosso per cui lo Stato italiano interviene accompagnando con proprie risorse quelle comunitarie assai più in Lombardia (50%) che in Calabria (25%). Il governo, dunque, assume come un dato questi ritardi, invece di assumersi la responsabilità politica degli interventi (che, è bene ricordare, vanno completati entro il 2022) e quella tecnica di realizzarli (se le Regioni sono incapaci, intervengano ministeri e Agenzie), punisce i cittadini e le imprese delle tre Regioni più in difficoltà. Promette di collocare il mancato cofinanziamento nel contenitore già esistente del Piano azione coesione, proprio nei giorni in cui quel fondo viene usato come un bancomat.

Così come riduce, invece di aumentare, il tetto stabilito dal Patto di stabilità interno per l’effettiva erogazione della quota del cofinanziamento nazionale dei vecchi programmi 2007-13, rendendo così un po’ più difficile che si giunga alla scadenza del 31 dicembre 2015 con risorse di quei programmi non erogate e rendicontate e, quindi, tragicamente perdute. Le azioni per lo sviluppo del Mezzogiorno appaiono orfane di una responsabilità politica, che sappia disegnare uno scenario, interrogarsi in misura tecnicamente approfondita sulle difficoltà, promuovere velocemente i necessari cambiamenti, ma anche rivendicare alle politiche pubbliche i risultati ottenuti: nelle dotazioni delle scuole e nel trasporto ferroviario locale, nell’ammodernamento degli aeroporti, nella tutela del territorio, nella promozione del turismo, nella difesa (se non nell’ampliamento) dell’apparato industriale.

Esse sono sostituite, invece, da una vulgata, quella dello spreco, che si inserisce in un filone interpretativo politico-antropologico tanto approssimativo e fallace quanto diffuso: che imputa le difficoltà dell’economia meridionale solo alla bassa qualità delle sue classi dirigenti, espressione a loro volta di una popolazione carente di cultura e capitale sociale; che vede nell’ intervento pubblico il problema e non la possibile soluzione. Chi è causa del suo mal pianga se stesso, quindi: pensi a migliorare le proprie amministrazioni e soprattutto la smetta di bussare a danari e di “intralciare il manovratore”.

Ora, non vi è dubbio che la qualità delle classi dirigenti meridionali, politiche e tecniche, sia modesta e probabilmente inferiore a quella di dieci o quindici anni fa. Ma è invece assai discutibile che ciò sia un tratto immutabile, che deriva solo da aspetti culturalistici; e non invece, soprattutto, un effetto delle debolezze complessive dell’azione pubblica in Italia, così come del tramonto di molte idealità della politica. La spia di un malessere diffuso – pur a diversi gradi di intensità – nell’intero paese. Spiace che un partito o un esecutivo possano quasi assumere questa debolezza come un dato; e non invece come uno sprone per interventi in sede tecnica, legislativa, amministrativa e soprattutto politica per mutarla.

Il sospetto a cui tutti noi ormai ci siamo abituati è, da una parte, che la vulgata dello spreco serva a determinare, sempre più, condizioni in cui la consapevolezza per i meridionali di non meritare l’aiuto che pure gli spetterebbe e che farebbe ripartire tutto il Paese, dall’altro diventa l’alibi per una ridistribuzione delle risorse che da “errore tecnico” diventi strategia politica.